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NDE – George Ritchie

Ultimo Aggiornamento: 01/12/2013 16:15
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28/02/2013 19:46
 
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Parte I
Nel dicembre 1943 George Ritchie "morì" di polmonite. Nove minuti più tardi tornò in vita per raccontare la sua stupefacente avventura nell'aldilà. La sua NDE fu quella che colpì profondamente Raymond Moody, e lo indusse ad indagare seriamente le NDE. Il primo libro di Moody, La vita oltre la vita, inizia con questa dedica: «Al dottor George Ritchie e, per lui, all'Uno che mi ha fatto intravedere». L'esperienza del dottor Ritchie rappresenta dunque un caso esemplare. La narrazione che segue è riportata dal libro di Ritchie Return from Tomorrow (tratto da near-death.com).

Gli uomini lasciarono andare le mie braccia… Udii un click ed un ronzio continuo. Il ronzio continuava, diventando sempre più forte. Era all'interno della mia testa, e le mie ginocchia sembravano di gomma: si stavano piegando ed io stavo cadendo, e nel frattempo il ronzio cresceva d'intensità. Mi misi a sedere con un movimento improvviso. Che ora era? Guardai il tavolo accanto al letto ma l'orologio era stato portato via. In effetti, della mia roba non c'era più nulla. Saltai fuori dal letto contrariato, cercando i miei vestiti: la mia uniforme non era più sulla sedia. Mi girai, e restai di sasso: qualcuno giaceva nel mio letto.

Feci un passo avanti: era un uomo piuttosto giovane, con corti capelli bruni, e giaceva immobile. Ma questo era impossibile! Io stesso mi ero appena alzato da quel letto. Mi cimentai con quel mistero solo per poco: era troppo strano per rifletterci sopra, ed in ogni caso non ne avevo il tempo. Tornai indietro oltre gli uffici e proseguii nel corridoio. Un sergente veniva avanti portando un vassoio di strumenti coperto con un panno. Probabilmente non era informato di nulla, ma io fui così contento di trovare qualcuno sveglio che gli andai incontro.

"Mi scusi, sergente – gli dissi – ha visto per caso l'infermiere di guardia in questa sezione?" Il sergente non mi rispose, anzi non mi degnò neanche di uno sguardo. Proseguì dritto verso di me col suo passo, senza rallentare.

"Attento!" gridai, saltando da un lato per non essere urtato. Un attimo dopo era dietro di me, e si allontanava lungo il corridoio come se non mi avesse nemmeno visto, sebbene non sapessi neanch'io come eravamo riusciti a non urtarci. Poi vidi qualcosa che mi fece venire un'altra idea. In fondo al corridoio c'era una di quelle pesanti porte in metallo che conducevano all'esterno. Andai rapidamente in quella direzione: anche se avessi perso l'ultimo treno, in un modo o nell'altro sarei riuscito a raggiungere Richmond. Quasi senza sapere come, mi trovai all'esterno: mi muovevo rapidamente, spostandomi più in fretta di quanto non avessi mai fatto in vita mia. Guardando in basso, sotto di me, fui sorpreso di vedere non il terreno, ma le cime dei cespugli di mesquite. Camp Barkeley sembrava già distante, dietro di me, mentre mi muovevo rapidamente sopra l'oscuro e freddo deserto. La mia mente mi stava avvertendo che ciò che stavo facendo era impossibile, e tuttavia… stava accadendo.

Stavo andando a Richmond: in qualche modo l'avevo saputo fin dal momento in cui ero uscito dalla porta dell'ospedale. Andavo verso Richmond ad una velocità cento volte superiore a quella di qualsiasi treno su questa Terra. Quasi immediatamente notai che stavo rallentando. Proprio sotto di me, laddove due strade si univano, scorsi uno scintillante bagliore blu. Veniva dall'insegna al neon posta sulla porta di un edificio dal tetto rosso ad un solo piano, con un'insegna della birra Pabst Nastro Azzurro attaccata alla vetrina. "Caffé" dicevano le lettere dell'insegna dalla luce fluttuante sulla porta, e dalle vetrine la luce illuminava il pavimento.

Osservando la scena, mi resi conto che avevo completamente smesso di muovermi. Trovandomi in qualche modo sospeso in aria a più di quindici metri di altezza fu una sensazione perfino più strana di quella del volo turbinoso. Ma non avevo tempo per pensarci sopra, perché giù sul marciapiede verso il caffé notturno un uomo avanzava con passo energico. Almeno, pensai, avrei potuto sapere da lui di che città si trattava e verso dove mi stavo dirigendo. Non appena ebbi avuto quest'idea, dato che pensiero ed azione erano diventati un tutt'uno, mi trovai giù sul marciapiede, mentre mi camminavo velocemente a fianco dello sconosciuto. Era un civile, forse di 40 o 45 anni, ed indossava un soprabito, ma senza cappello. Ovviamente stava pensando intensamente a qualcosa, perché non mi rivolse nemmeno un'occhiata, nonostante camminassi al suo fianco.

"Può dirmi, per favore – dissi – che città è questa?" Continuò a camminare. "La prego, signore – dissi, parlando più forte – non sono di queste parti, e le sarei grato se…“ Avevamo raggiunto il caffé e lui si girò, spingendo sulla maniglia della porta. Era per caso sordo? Alzai la mano sinistra per battergli un colpetto sulla spalla, ma lì non c'era niente.

Stavo lì davanti alla porta, guardandolo a bocca aperta mentre apriva la porta e scompariva all'interno del locale. Era stato come toccare l'aria, come se non ci fosse stato nessuno. E tuttavia io l'avevo visto chiaramente, ed avevo perfino notato il segno scuro della barba che spuntava sul mento, dove aveva bisogno di una buona rasatura. Mi ritrassi di fronte al mistero di quell'uomo immateriale e mi appoggiai al cavo che reggeva un palo del telefono per riflettere su quel che accadeva: il mio corpo passò attraverso quel cavo come se anch'esso non fosse stato là. Sul marciapiede di quella città sconosciuta cominciai ad avere alcuni incredibili pensieri. I più strani, i più difficili pensieri che mi fosse mai capitato di fare. L'uomo nel caffé, il palo del telefono… per me erano perfettamente normali. Supponiamo che fossi io quello che era… cambiato, in qualche modo. Cosa sarebbe accaduto se per qualche impossibile, inimmaginabile ragione avessi perso la mia… consistenza? la mia abilità di afferrare le cose, di entrare in contatto col mondo? Quel tipo che avevo appena incontrato… era ovvio che non mi aveva mai visto né udito.

Ed improvvisamente ricordai quel giovane che avevo visto nel mio letto in quella piccola stanza d'ospedale. E se fosse stato… me stesso? O quanto meno, la mia parte concreta, materiale da cui per qualche inesplicabile ragione mi ero separato. Che sarebbe accaduto se quella forma che avevo lasciato giacente in quella stanza d'ospedale nel Texas fosse stata la mia? E se così era, come potevo tornare indietro per raggiungerla? Perché ero scappato via senza riflettere?

Mi stavo muovendo di nuovo, allontanandomi dalla città. Sotto di me c'era un largo fiume. Sembrava che tornassi indietro, verso la direzione dalla quale ero venuto, ed avevo l'impressione di guizzare attraverso lo spazio anche più velocemente di prima: colline, laghi e fattorie scorrevano via sotto di me mentre sfrecciavo in costante linea retta sopra lo scuro paesaggio notturno. Ed ero di nuovo in piedi davanti all'ospedale della base. E così ebbe inizio una delle più strane ricerche che abbiano mai avuto luogo: la ricerca di me stesso. Corsi da una camera all'altra di quell'enorme edificio, fermandomi in ogni stanzetta, chinandomi su ogni occupante dei letti, e andando rapidamente oltre.

Tornai indietro verso l'entrata. In un letto c'era un uomo morto! Sentii la stessa riluttanza che avevo provato la volta precedente, quando mi ero trovato in una stanza insieme ad un morto. Ma… se quello che aveva al dito era il mio anello, allora… quello ero io, la parte separata di me stesso, che giaceva sotto quel lenzuolo. Questo voleva dire che io ero… Era la prima volta durante tutta quest'esperienza che la parola "morte" mi passava per la testa in relazione a quanto stava accadendo. Ma io non ero morto! Come potevo essere morto, ed essere tuttavia così sveglio? Pensavo, avevo delle esperienze… La morte era qualcosa di diverso: era… non lo sapevo… l'oscuramento completo, il nulla assoluto. Io ero io, completamente vigile, anche se privo del corpo fisico con cui funzionare.

In preda all'ansia allungai la mano verso il lenzuolo, cercando di tirarlo giù per scoprire il cadavere nel letto. Tutti i miei sforzi non servirono a muovere nemmeno un soffio d'aria in quella stanzetta silenziosa. Improvvisamente mi accorsi che tutto era più luminoso, molto più luminoso di quanto non fosse stato prima. Osservavo sbigottito lo splendore che aumentava, senza che si capisse da dove proveniva, illuminando intensamente ogni cosa. Tutte le lampadine della stanza non potevano produrre una luce simile. Nemmeno tutte le lampadine del mondo avrebbero potuto farlo! Era una luce impossibile. Era come se un milione di lampade ad arco brillassero contemporaneamente. "Meno male che non ho occhi fisici in questo momento – pensai – Questa luce distruggerebbe la retina in un decimo di secondo".

"No – mi corressi – non la luce, ma lui. Lui è troppo splendente per poter essere guardato". Infatti ora vedevo che non era la luce, ma un uomo ad essere entrato nella stanza, o meglio, un uomo fatto di luce, sebbene una cosa del genere non sembrasse alla mia mente meno improbabile dell'incredibile intensità del bagliore di cui era composta la sua forma. Nel momento in cui ne percepii la presenza, un comando si formò in modo automatico nella mia mente: "In piedi!" Le parole venivano dal mio interno, e tuttavia avevano un'autorità che i miei pensieri non avevano mai avuto. Mi alzai in piedi e non appena lo feci ebbi una stupefacente certezza: "Sei in presenza del figlio di Dio". Se questo era il figlio di Dio, allora il suo nome era Gesù. Quest'essere era puro potere, più antico del tempo e tuttavia più moderno di chiunque avessi mai incontrato.

Innanzi tutto, con quella stessa misteriosa certezza interiore, io sapevo che quest'uomo mi amava. Molto ma molto più forte del potere, ciò che emanava da questa presenza era amore incondizionato. Un amore sbalorditivo, un amore al di là di quanto avessi mai potuto immaginare. Quest'amore sapeva sul mio conto ogni spiacevole dettaglio: i litigi con la mia matrigna, il mio carattere irruento, i desideri sessuali che non riuscivo mai a controllare, ogni azione ed ogni pensiero egoistici e meschini che avevo avuto fin dal giorno della mia nascita. Eppure mi acccettava così com'ero. Quando dico che sapeva tutto di me, questo era semplicemente un dato di fatto. Perché in quella stanza, insieme con la sua radiosa presenza, era entrato anche ogni singolo episodio della mia vita, tutti insieme, sebbene per raccontarli li dovrei descrivere uno per uno. Tutto ciò che mi era mai accaduto in qualsiasi circostanza era semplicemente là, in bella mostra, contemporaneamente presente, e tutti gli episodi sembravano svolgersi nello stesso tempo. Ogni dettaglio di venti anni di vita era lì per essere osservato, il bene ed il male, i punti salienti ed i fatti ordinari. Ed insieme a questa visione onnicomprensiva venne una domanda: era implicita in ogni scena e, al pari delle scene medesime, sembrava emanare dalla luce vivente che stava al mio fianco: "Cosa ne hai fatto della tua vita?"

Disperatamente guardai intorno a me alla ricerca di qualcosa che sembrasse degno di valore alla luce di questa sfolgorante realtà. Ma trovai soltanto una preoccupazione insistente, miope e senza fine per me stesso. Avevo mai fatto qualcosa che andasse oltre il mio interesse immediato, qualcosa che gli altri potessero riconoscere come pregevole? Improvvisamente la questione stessa prese forma dentro di me. Non era giusto! Certamente, non avevo fatto nulla di buono nella mia vita! Non ne avevo avuto il tempo. Come si può giudicare una persona che non ha nemmeno cominciato?

Il pensiero di ritorno, tuttavia, non conteneva alcuna traccia di giudizio: "La morte – la parola era infinitamente amorevole – può arrivare ad ogni età".

"E che ne sarà dell'assicurazione sulla vita che riscuoterò solo a 70 anni?" Queste parole mi scapparono, in quella strana dimensione in cui la comunicazione aveva luogo col pensiero anziché con la voce, prima che potessi fermarle. Se prima avevo sospettato che nella presenza al mio fianco c'erano allegria e senso dell'umorismo, adesso ne ero certo. Lo splendore sembrò vibrare e scintillare in una specie di santa risata, non rivolta a me o alla mia sciocchezza, non una risata di derisione o di compatimento, ma una risata gioiosa, che sembrava voler dire che nonostante tutti gli errori e tutti i drammi dell'esistenza, l'allegria era comunque destinata a durare più a lungo.

E nell'estasi di quella risata compresi che ero io quello che stava giudicando gli eventi intorno a noi così severamente. Ero io che li vedevo come banali, egocentrici, privi di importanza. Nessuna condanna del genere proveniva dalla gloria che splendeva intorno a me. Non mi stava biasimando o rimproverando: mi stava semplicemente… amando. Riempiva il mondo con la sua presenza e nello stesso tempo, tuttavia, si occupava di me personalmente, aspettando la mia risposta alla domanda che ancora restava sospesa nell'aria smagliante: "Che cos'hai fatto della tua vita da potermi mostrare?"

La domanda, come tutto quello che emanava da lui, aveva a che fare con l'amore. Quanto hai amato nella tua vita? Hai amato gli altri come io ti sto amando? Completamente? Senza condizioni? Ascoltando la domanda in questa forma, vidi quanto sarebbe stato sciocco da parte mia tentare anche solo di trovare una risposta nelle scene intorno a noi. Ecco, io non avrei neanche immaginato che un amore come questo potesse essere possibile. Qualcuno avrebbe dovuto dirmelo, pensai con indignazione!

"Io te l'ho detto". Ma come, quando? Cercavo sempre una giustificazione. Come poteva avermelo detto, se io non l'avevo udito? "Te l'ho detto con la vita che ho vissuto, te l'ho detto con la morte che ho patito. E, se tu poserai il tuo sguardo su di me, vedrai altre cose…".

Con un sussulto notai che ci stavamo muovendo. Non mi ero accorto di aver lasciato l'ospedale, ma adesso non lo vedevo da nessuna parte. Anche le immagini viventi degli eventi della mia vita che si erano affollate intorno a noi erano svanite: sembrava invece che stessimo volando molto in alto: ci dirigevamo velocemente verso un distante puntino di luce. Il punto luminoso si rivelò come una grande città verso la quale cominciammo a scendere. Era ancora notte ma il fumo usciva dalle ciminiere delle fabbriche e molti edifici erano illuminati in tutti i loro piani. Al di là delle luci c'era un oceano o un grande lago: avrebbe potuto essere Boston, o Detroit, o Toronto, certamente non era una città in cui io fossi già stato, ma pensai, mentre mi avvicinavo abbastanza da poter distinguere le strade affollate, ad un posto in cui le industrie belliche funzionavano notte e giorno.

Notai a più riprese un certo fenomeno: le persone non si accorgevano nemmeno di chi stava loro accanto. Vidi un gruppo di addetti alle catene di montaggio riuniti in una caffetteria. Una delle donne chiese ad un'altra se aveva una sigaretta, la pregò di dargliela, come se effettivamente la desiderasse più di qualsiasi altra cosa al mondo. Ma l'altra, continuando a chiacchierare con i suoi amici, la ignorò. Prese un pacchetto di sigarette dalle tasche della tuta, e senza nemmeno offrirne alla donna che le desiderava così avidamente ne prese una e l'accese. Con la rapidità di un serpente che attacca la donna che era stata ignorata cercò senza succcesso di afferrare la sigaretta accesa dalla bocca dell'altra. Ci provò di nuovo, ed un'altra volta ancora. Con un brivido mi accorsi che non riusciva ad afferrare la sigaretta: come me, infatti, era morta.

In una casa un giovane seguiva una persona più anziana da una stanza all'altra: "Mi dispiace, papà, – continuava a ripetere – non avevo idea di ciò che avrebbe significato per la mamma! Non me ne rendevo conto". Ma sebbene io potessi udirlo chiaramente, era ovvio che l'uomo a cui si rivolgeva non lo sentiva. L'uomo stava portando un vassoio in una stanza in cui una donna anziana era seduta nel letto. "Mi dispiace, papà, – il giovane disse ancora – mi dispiace, mamma". Lo ripeteva di continuo, senza fine, parlando ad oorecchie che non potevano udire.

Ci fermammo diverse voolte davanti a scene simili. Un giovane seguiva una ragazza attraverso i corridoi di una scuola: "Mi dispiace, Nancy!". Una donna di mezza età pregava un uomo dai capelli grigi di perdonarla. "Per cosa sono così dispiaciuti, Gesù? – domandai – Perché continuano a cercar di parlare a persone che non possono udirli?"

Allora dalla luce al mio fianco venne un pensiero: "Si tratta di suicidi, incatenati a tutte le conseguenze del loro atto". Gradualmente cominciai a notare qualcos'altro. Tutte le persone vive che stavamo osservando erano circondate da un debole alone luminoso, quasi come un campo elettrico sulla superficie dei loro corpi: questa luminescenza si muoveva con loro, come una seconda pelle fatta di una pallida luce appena visibile. Dapprima pensai che si trattasse dello splendore riflesso proveniente dalla persona che era al mio fianco, ma gli edifici in cui entravamo non riflettevano alcuna luce, e nemmeno lo facevano gli oggetti inanimati. Mi accorsi poi che gli esseri inorganici non avevano questa luce: vidi che il mio corpo non fisico non aveva questa guaina luminosa.

A questo punto la luce mi condusse all'interno di uno squallido bar-rosticceria vicino a quella che sembrava una grande base navale. Una folla di gente, quasi tutti marinai, si accalcavano al banco su tre file, mentre altri affollavano i tavoli di legno lungo i muri. Mentre alcuni bevevano birra, la maggior parte di essi sembravano scolare bicchieri di whisky con la stessa velocità con cui i due sudati baristi riuscivano a riempirli. Poi notai un fatto che mi colpì: alcuni degli uomini che stavano al banco sembravano incapaci di portare i bicchieri alle labbra. Più volte li osservai afferrare i loro bicchierini, mentre le mani attraversavano il solido vetro, il bancone di legno massiccio, e le stesse braccia ed i corpi dei bevitori che stavano accanto a loro. E questi uomini, nessuno escluso, non avevano l'aureola di luce che circondava gli altri. Perciò il bozzolo di luce deve essere una proprietà esclusiva del corpo fisico. I morti, coloro che hanno perso la loro solidità, hanno anche perso questa seconda pelle.

Ed era ovvio che i viventi, quelli circondati dall'alone luminoso, quelli che potevano bere, chiacchierare e pigiarsi l'un l'altro, non potevano né vedere i disperati assetati privi di corpo accanto a loro, né percepire i loro frenetici tentativi di afferrare quei bicchieri. Così mi fu anche chiaro, mentre osservavo, che gli esseri senza corpo potevano sia vedersi che udirsi tra loro. Liti furibonde scoppiavano continuamente per assicurarsi il possesso di quei bicchieri che nessuno riusciva poi a portarsi alle labbra.

Pensavo di aver visto grandi bevitori alle feste goliardiche di Richmond, ma il modo in cui civili e militari ci davano dentro in questo bar li batteva tutti. Osservai un giovane marinaio alzarsi barcollando da uno sgabello, fare due o tre passi ed accasciarsi pesantemente al suolo. Due suoi compagni si chinarono su di lui e cominciarono a trascinarlo via dalla calca. Ma non era questo ciò che mi colpì: stavo guardando con stupore il bozzolo di luce del marinaio in stato di incoscienza che si stava aprendo. Cominciò a spaccarsi dalla sommità della testa e continuò a avenir via come una pellicola dal capo e dalle spalle. In un attimo, più in fretta di quanto avessi mai visto qualcuno muoversi, uno degli esseri senza corpo che stavano in piedi al bar vicino a lui gli fu addosso. Incombeva come un'ombra assetata a fianco del marinaio, seguendo avidamente ogni deglutizione del giovane. Sembrava pronto a lanciarsi su di lui come una bestia da preda.

Un'istante dopo, lasciandomi ancor più perplesso, la figura in agguato era svanita. Era tutto accaduto prima ancora che i due uomini trascinassero via il loro carico incosciente da sotto i piedi di quelli che stavano al bar. Il minuto prima avevo potuto distinguere due individui, e nel momento in cui appoggiavano il marinaio contro il muro ne vedevo uno solo. La stessa scena si ripeté altre due volte, mentre io osservavo stupefatto. Un uomo perdeva i sensi, una spaccatura si apriva rapidamente nell'aureola che lo circondava, ed uno di quegli esseri non solidi svaniva mentre si slanciava verso quell'apertura, quasi che si fosse infilato dentro l'altro uomo.

Forse che quel guscio di luce rappresentava una specie di scudo? Era per caso una protezione contro… contro gli esseri disincarnati come me? Probabilmente quelle creature non fisiche avevano avuto una volta un corpo solido, come quello che avevo avuto anch'io. Forse quando avevano il corpo avevano anche sviluppato una dipendenza dall'alcool che era andata oltre il loro fisico, fino a divenire una dipendenza mentale e perfino spirituale. Allora dopo aver perduto il corpo essi erano tagliati fuori per sempre da ciò che bramavano incessantemente, tranne che nei brevi attimi in cui riuscivano a prendere possesso del corpo di un altro.

Un'eternità di quel genere (al solo pensiero mi sentii attraversare da un brivido gelido) sarebbe stata certamente una specie di inferno. Avevo sempre immaginato l'inferno, le rare volte in cui ci avevo pensato, come un posto fiammeggiante da qualche parte sottoterra nel quale persone malvagie come Hitler bruciavano per l'eternità. Ma era come se un livello dell'inferno esistesse proprio qui sulla superficie, invisibile ed impercettibile dagli esseri viventi che occupano lo stesso spazio. Forse l'inferno significava restare vincolati a questo mondo senza poter mai interagire con esso. Pensai a quella donna che desiderava una sigaretta: volere intensamente, bruciare di desiderio, e non aver modo di poterlo soddisfare, sarebbe stato veramente un inferno. Non "sarebbe stato", compresi scuotendomi: questo "era" l'inferno. Ed io ne facevo parte proprio come quelle altre creature disincarnate. Ero morto, avevo perso il mio corpo fisico, ed ora esistevo in un regno che non reagiva in alcun modo…

Altre due cose decisamente uniche riguardavano gli esseri di questo reame. Poiché l'ipocrisia è impossibile se gli altri possono conoscere i tuoi pensieri non appena vengono in mente, i disincarnati tendono a raggrupparsi con quelli che hanno pensieri simili ai loro. Nella nostra dimensione, la Terra, abbiamo un detto: "Uccelli con la stessa penna vanno insieme". La ragione principale per cui restano uniti è perché è troppo rischioso trovarsi con esseri che possono accorgersi che tu non sei d'accordo con loro.

Uno dei posti che osservammo sembrava essere una stazione ricevente. Gli esseri vi arrivavano spesso in una specie di trance ipnotica profonda. La definisco ipnotica perché mi rendevo conto che si erano messi da soli in quella condizione a causa di ciò in cui credevano. C'erano alcune entità, che potrei definire come "angeli", che lavoravano su questi esseri in trance cercando di risvegliarli ed aiutandoli a comprendere che Dio è veramente un Dio dei viventi e che non era necessario che essi vagassero addormentati finché Gabriele o un suo simile non giungesse soffiando nella tromba del giudizio.

Ci stavamo di nuovo muovendo. Avevamo lasciato la base navale con il suo contorno di sordide vie e di squallidi locali, ed ora ci trovavamo, in questa dimensione in cui i viaggi non sembravano richiedere alcun tempo, al limite di un'ampia pianura. Fino a quel momento, nella nostra esplorazione, avevamo visitato posti nei quali i vivi ed i morti esistevano fianco a fianco: c'erano esseri disincarnati, di cui i vivi non sospettavano in alcun modo la presenza, che stavano proprio sopra gli oggetti fisici e le persone su cui si concentravano i loro desideri. Ma adesso, sebbene apparentemente fossimo ancora da qualche parte sulla superficie di questo mondo, non riuscivo a vedere nessun uomo o donna viventi. La pianura era affollata da orde di fantasmi disincarnati ammassati insieme; da nessuna parte era possibile vedere una creatura solida, circondata di luce. Tutte queste migliaia di esseri erano apparentemente non più sostanziali di quanto lo fossi io. Ed erano le più angosciate, le più adirate e le più completamente miserabili creature che avessi mai osservato.

"Signore Gesù – gridai – dove siamo?" Dapprima pensai che stessimo guardando qualche vasto campo di battaglia. Ovunque gli spiriti erano coinvolti in quelle che sembravano lotte all'ultimo sangue, si contorcevano, tiravano pugni o fendenti. Guardando più da vicino, vidi che non avevano armi di sorta, ma si battevano con le mani nude, con i piedi e con i denti. E poi mi accorsi che nessuno veniva realmente ferito: non c'era sangue, non c'erano corpi al suolo. Un colpo che avrebbe dovuto eliminare l'avversario lo lasciava illeso. Se avevo sospettato di star osservando l'inferno, ora ne ero sicuro: queste creature sembravano bloccate nelle loro abitudini mentali e nelle emozioni, in un labirinto di pensieri di odio, di eccitazione e di distruzione.
[Modificato da francocoladarci 01/12/2013 16:15]

“Quando si vuol cercare la verità su una questione
bisogna cominciare col il dubbio.
(S. Tommaso d’Aquino)”

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