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Qui sotto riproduciamo la descrizione di un individuo ritornato in vita dopo la morte clinica, pubblicato da K. Uekskuell nel "Giornale di Mosca" verso la fine del XIX secolo. Nel 1916 l'Arcivescovo Nikon, un membro del Santo Sinodo, ristampò l'articolo nella sua pubblicazione "Pagine della Trinità" con i seguenti commenti: "riguardo a questo racconto, abbiamo avuto a suo tempo una corrispondenza con l'autore, che, dopo avere verificato la sua validità, ha testimoniato che il protagonista del racconto, dopo avere narrato la sua esperienza, è entrato in monastero. Tenuto conto del fatto che niente in questo racconto è in contraddizione con la posizione della Chiesa sul mistero della morte e della vita dopo la morte, crediamo utile ristampare questo articolo come pubblicazione separata."

Traduzione dalla versione inglese in Orthodox Life, Vol. 26, No. 4 (Luglio-Agosto, 1976), pp. 1-36.

Non mi dedicherò qui a una descrizione generale della mia personalità, poiché ciò non ha a che fare con la storia che presento, ma cercherò di descrivere me stesso al lettore solo in termini della mia relazione alla religione.

Cresciuto in una famiglia cristiana ortodossa e piuttosto devota, e dopo avere studiato in un'istituzione in cui la mancanza di fede non era rispettata come segno del genio di uno studente, non finii per essere un veemente, famigerato miscredente, come era la maggioranza dei giovani del mio tempo. Essenzialmente, finii per essere qualcosa di molto indefinito: non ero un ateo, e in nessun modo potevo considerarmi in alcun grado come un uomo religioso, e dato che entrambi questi stati mentali non erano il risultato delle mie convinzioni, ma per così dire erano come passivamente imposti su di me da determinate forze ambientali, chiederò al lettore di trovare da sé una classificazione appropriata per la mia personalità rispetto a questa situazione.

Ufficialmente portavo il nome di cristiano, ma senza dubbio non pensavo mai se avessi davvero il diritto a un nome del genere. Non ebbi mai neppure la minima inclinazione a ricercare ciò che la vocazione di un cristiano mi richiedeva, e se soddisfacevo queste richieste. Avevo sempre detto che credevo in Dio; ma se mi avessero chiesto come credevo - o come la Chiesa Ortodossa a cui appartenevo insegna a credere, senza dubbio mi sarei trovato in difficoltà. Se mi fosse stato chiesto in maggiori dettagli se credevo, per esempio, nella nostra salvezza attraverso l'Incarnazione e la sofferenza del Figlio di Dio, nella sua seconda venuta come Giudice, quale fosse la mia relazione con la Chiesa, se credessi nella necessità della sua fondazione, santità e salvezza per noi tramite i suoi sacramenti, e così via, posso solo immaginare quali assurdità avrei detto come risposte. Ecco un esempio:

Un giorno mia nonna, che osservava sempre strettamente i digiuni, mi rimproverava perché io non li seguivo.

"Sei ancora forte e sano, hai un buon appetito, ne consegue che sei in grado di adattarti molto bene al cibo da digiuno. Perché non segui quelle leggi della Chiesa che non sono difficili neppure per noi?"

"Ma nonna, questa è una legge del tutto irragionevole," obiettai. "Tu infatti mangi, per così dire, meccanicamente, per abitudine, e nessun essere intelligente deve assoggettarsi a una tale abitudine."

"Perché irragionevole?"

"Ebbene, che differenza fa a Dio se mangio prosciutto o pesce affumicato?"

(Ditemi se non è vero - che esempio abbiamo qui di profondità di comprensione dell'essenza del digiuno da parte di un uomo istruito!).

"Com'è che parli in questo modo?" continuò la nonna. "Si può definire una legge irragionevole, quando il Signore stesso la seguiva?"

Fui colpito da questa risposta, e solo con l'aiuto di mia nonna fui in grado di ricordare il racconto evangelico che parla di questa condizione. Ma il fatto che l'avessi dimenticato, come vedete, non mi ostacolava in alcun modo dal gettarmi a capofitto in un'opposizione che prendeva un carattere alquanto altezzoso.

E non pensare, lettore, che io fossi più sciocco o di mente più volubile degli altri giovani del mio gruppo.

Ecco un altro esempio.

A uno dei miei colleghi, che era considerato colto e serio, fu chiesto se credesse in Cristo come Dio-uomo. Rispose di sì, ma subito dopo la conversazione rivelò che negava la Risurrezione di Cristo.

"Mi permetta, perché dice queste stranezze?", obiettò un'anziana signora. "Secondo la sua fede, che ne è stato di Cristo? Se crede in lui come Dio, com'è che può concedere allo stesso tempo che Egli sia morto completamente, ovvero che abbia terminato per sempre la sua esistenza?"

Aspettammo qualche tipo di risposta arguta da nostro intelligente collega, qualche tipo di sottigliezza sulla concezione della morte o una nuova spiegazione dell'argomento in questione. Nulla del genere, egli si limitò a rispondere: "Oh! Non ci avevo pensato. Avevo detto ciò che provavo."

II

Uno stato esattamente identico di incompatibilità di idee prese dimora in me, e per negligenza da parte mia, si costruì un solido nido nella mia mente.

Sembravo credere debitamente in Dio, vale a dire, lo riconoscevo come un Essere personale, onnipotente, eterno; riconoscevo l'uomo come sua creazione, ma non credevo nella vita dell'aldilà.

Un buon quadro della volubilità delle nostre relazioni sia alla religione che al nostro stato spirituale si vede nel fatto che io non sapessi di questa mia seria mancanza di fede, finché, come nel caso del mio collega summenzionato, una certa circostanza la portò alla luce.

Il fato mi portò a essere amico di un uomo serio e molto ben istruito; era anche molto simpatico, e dato che viveva da solo, mi piaceva fargli visita di tanto in tanto. Un giorno, arrivando la lui, lo trovai a leggere il catechismo.

"Che succede, Prochor Alexandrovich," - questo era il nome del mio amico - "ti stai preparando a diventare un pedagogo?" Gli chiesi stupito, indicando il libro.

"Caro mio, che vuoi dire, con pedagogo! Sarebbe già bene se potessi diventare un passabile studente. È ben lontana da me l'idea di insegnare ad altri. Devo prepararmi per gli esami. Guarda come mi diventano grigi i capelli, vedi, aumenta di giorno in giorno, e prima che te l'aspetti ti chiamano a render conto di tutto," disse con il suo solito sorriso cordiale.

Non presi le sue parole alla lettera, e pensai che dato che era un uomo di vaste letture, aveva sentito il bisogno di una certa correzione tramite la catechesi. Egli, evidentemente desideroso di spiegarmi la lettura a me estranea, disse:

"Si leggono tutti i tipi di spazzatura contemporanea, ebbene, ora sto controllando di non essere andato nella direzione sbagliata. Sai, l'esame che ci aspetta è severo, ed è severo anche per il fatto che non si ammettono ripetizioni.

"Ma ci credi veramente?"

"Di fatto, come si può non crederci? Che ne sarà di me, dimmi un po'? Pensi davvero che sarò ridotto in polvere? E se non sarò polvere, non c'è dubbio che sarò chiamato a rispondere. Non sono schiuma, ho una volontà e una mente, ho vissuto consciamente e... ho peccato..."

"Non so, Prochor Alexandrovich, come e da cosa possa essere sorta la tua fede nella vita dell'aldilà. È naturale pensare che un uomo muoia - e, bene, tutto termina qui. Lo vedi immobile e senza respiro, tutto si decompone, che idee di qualche genere di vita ci possono essere in questo stato?" dissi, esprimendo esattamente ciò che provavo, nell'ordine in cui queste idee dovevano essere sorte in precedenza e avere formato la mia comprensione.

"Permettimi, cosa pensi che dovremmo concludere di Lazzaro di Betania? Sai che questo è un fatto autentico, e anch'egli era un uomo, modellato con la mia stessa argilla."

Guardai il mio interlocutore con franca sorpresa. Era possibile che questo uomo colto credesse a cose così incredibili?

E Prochor Alexandrovich a sua volta mi guardò fisso per circa un minuto; poi, a voce più bassa, disse:

"Sei forse un miscredente?"

"No, perché dici così? Io credo in Dio," risposi.

"E negli insegnamenti divinamente rivelati, non ci credi? Ma oggi Dio lo si capisce in modi differenti, e praticamente ogni individuo inizia a rimodellare gli insegnamenti divinamente rivelati per venire incontro alle proprie necessità personali, e stabilisce classifiche; a questo, dunque, devi credere, ma in questo puoi credere o no, e in quell'altro non devi assolutamente credere! Come se vi fossero diverse verità, e non solo una. E non capiscono che nel fare così stanno già credendo nei prodotti della loro mente e immaginazione, e se così è, allora, naturalmente, qui non c'è posto per la fede in Dio."

"Ma uno non può credere a tutto. Talvolta si incontrano cose tanto strane."

"Vale a dire, non capite nel modo adeguato? Allora cerca di capire come si deve. Se non ci riesci, allora devi ammettere che la colpa è tua, e a tal punto ti devi arrendere. Inizia a ragionare come un uomo ordinariamente incolto riguardo alla quadratura del cerchio, o riguardo a qualche altro problema di alta matematica, e vedrai che anch'egli non ne capisce nulla, ma da questo non ne consegue che si deve rinnegare lo studio stesso della matematica. Naturalmente è più facile rinunciare, ma non è sempre... conveniente.

"Pensa con cura a quanto hai detto, che in essenza è un'assurdità: dici che credi in Dio, ma che non c'è vita dopo la morte. Ma Dio non è un Dio dei morti, ma dei viventi. Altrimenti che tipo di Dio è? Cristo stesso ha parlato di vita dopo la morte: pensi davvero che abbia detto falsità? Neppure i suoi più accaniti nemici furono in grado di provarlo. E perché egli venne tra noi e soffrì, se tutto il nostro futuro di riduce a finire in polvere?

"No, questo non è giusto. Devi con ogni mezzo, con ogni mezzo" - e parlò all'improvviso con intensità - "correggerti. Devi comprendere quanto sia importante. Una simile fede dovrebbe gettare una luce del tutto nuova sulla tua vita, darle un proposito differente, dare una direzione completamente nuova a tutto il tuo lavoro. Questa sarà per te una completa rivoluzione morale. In questa fede ci carichiamo di un fardello, ma allo stesso tempo abbiamo una fonte di consolazione e di sostegno per le lotte contro le avversità della vita che sono inseparabili da ciascuno.

III

Compresi l'intera logica nelle parole di Prochor Alexandrovich, ma naturalmente una conversazione di pochi minuti non poteva impiantare in me una fede in ciò a cui ero abituato a non credere, e la mia conversazione con lui essenzialmente servì solo a manifestare il mio punto di vista su una certa questione importante - un punto di vista che fino a quel momento io stesso non conoscevo bene perché non avevo avuto occasione di esprimerlo, e ancor meno occasione di pensarci a fondo.

La mia mancanza di fede evidentemente preoccupò in modo serio Prochor Alexandrovich: diverse volte nel corso della serata ritornò su questo tema, e mentre mi stavo preparando per partire, prese velocemente diversi libri dalla sua ampia biblioteca e, dandomeli, disse:

"Leggili, leggili senza esitazione, perché non si possono lasciare le cose così come stanno al presente. Sono certo che presto capirai razionalmente e ti convincerai della completa mancanza di fondamento della tua diffidenza, ma è necessario portare questa convinzione dalla mente al cuore, è necessario che il cuore comprenda, altrimenti un giorno o l'altro evaporerà e sarà dimenticata - la mente infatti è un setaccio attraverso al quale i diversi pensieri si limitano a passare, e non è lì il loro deposito."

Lessi i libri. Non ricordo ora se li lessi tutti, ma l'abitudine risultò essere più forte della ragione. Riconobbi che tutto quanto era scritto in quei libri era molto convincente, e a causa della superficialità della mia comprensione di questioni religiose, non fui in grado di sollevare la più piccola seria obiezione alle argomentazioni in essi contenute - ma la fede, nondimeno, non appariva in me. Riconoscevo che ciò non era logico, credevo che tutto quanto scritto nei libri fosse vero, ma non c'era alcuna sensazione di fede in me, e così continuai nella mia comprensione della morte come la fine assoluta dell'esistenza umana, dopo la quale seguiva solo la decomposizione.

Sfortunatamente, accadde che poco dopo la summenzionata conversazione con Prochor Alexandrovich, dovetti lasciare la città in cui vivevamo, e non ci vedemmo più. Non lo so, forse come persona intelligente e dotata del fascino di un uomo intensamente convinto, egli sarebbe riuscito almeno fino a un certo punto ad approfondire le mie vedute e i miei rapporti con la vita e le cose in generale, e in tal mondo a introdurre anche certi cambiamenti nella mia comprensione della morte, - ma lasciato a me stesso e alla natura e non essendo un giovane particolarmente serio, non ero in alcun modo interessato a tali questioni, e per la mia spensieratezza, dopo poco tempo non prestai più neppure un minimo di attenzione alle parole di Prochor Alexandrovich, che riguardavano la seria insufficienza della mia fede e la necessità di porvi rimedio.

In seguito a ciò, cambiamenti di residenza e incontri con nuove persone non solo fecero svanire tale questione dalla mia memoria, ma la pure conversazione con Prochor Alexandrovich, e persino la sua immagine mentale e la nostra breve conoscenza.

IV

Passarono molti anni. Per mia vergogna, devo ammettere che moralmente cambiai ben poco nel corso di questi anni. Anche se già ero un uomo alla metà del cammino della mia vita, vale a dire un uomo di mezza età, né nella mia relazione con la vita né in me stesso c'era stato un guadagno di serietà. Non comprendevo il senso della vita, una sorta di conoscenza stupefatta di me stesso rimaneva per me allo stesso livello di "chimerica" invenzione, come i ragionamenti del metafisico (1) nella ben nota favola dallo stesso nome, e vivevo, trascinato dagli stessi interessi grossolani e vuoti, dalla stessa concezione falsa e avara dello scopo della vita, con cui viveva la maggior parte della gente del mondo della mia classe e livello di istruzione.

Anche la mia relazione con la religione era rimasta immutata, vale a dire, come prima non ero né un ateo, né in qualsiasi grado una persona religiosa con una comprensione cosciente. Come prima, per abitudine andavo di tanto in tanto in chiesa, andavo alla confessione per abitudine una volta all'anno, mi segnavo per abitudine, quando era appropriato farlo - e questo per me era tutto quanto riguardava la religione. Non mi interessava alcuna questione religiosa e non comprendevo neppure che vi fosse qualcosa di interessante, a parte, ovviamente, le concezioni più elementari. Non ne sapevo nulla, e mi sembrava di sapere e comprendere tutto, e che tutto fosse così semplice e "privo di malizia", che un uomo "istruito" non avesse nulla di cui caricarsi la mente. Un'ingenuità che raggiunge proporzioni risibili, ma, sfortunatamente, molto caratteristica delle persone "istruite" dei nostri tempi.

È piuttosto ovvio che con la manifestazione di tali fatti, non ci poteva essere alcuna possibilità di un mio progresso nei sentimenti religiosi, né un allargamento degli orizzonti delle mie concezioni in questa materia.

V

Capitò che in questo periodo della mia vita il lavoro mi portò alla città di K., dove mi ammalai gravemente.

Poiché non avevo parenti né persone di servizio a K., dovetti andare in ospedale. I dottori mi trovarono una polmonite.

Dapprima mi sentivo così bene che nemmeno una volta ritenni necessario stare in ospedale per una simile sciocchezza; ma con lo sviluppo della malattia e la temperatura che iniziò a salire rapidamente, compresi che con una simile "sciocchezza" non sarebbe stato affatto saggio stare a letto da solo in una camera di qualche albergo.

Le lunghe notti invernali in ospedale erano per me particolarmente fastidiose; la febbre non mi lasciava affatto dormire, a volte mi era perfino impossibile stare sdraiato, e sedere nel letto era scomodo e stancante: non mi sentivo o non ero in grado di alzarmi e camminare lungo il reparto; e perciò continuavo a girarmi nel letto, mi sdraiavo, mi sedevo, allungavo le gambe e le rialzavo, e nel mentre continuavo ad ascoltare attentamente: quando inizierà a battere l'orologio! Aspettavo, aspettavo, e l'orologio sembrava battere di proposito solo due o tre volte, - e questo significava un'eternità prima dello spuntare del giorno. E quanto è deprimente su un malato l'effetto di questo sonno comune di molte persone, assieme alla quiete della notte. Uno si sente letteralmente in un cimitero in compagnia dei morti.

Mentre la mia malattia si avvicinava a una crisi, in egual misura le mie condizioni peggiorarono e io mi sentii peggio. A volte avevo tali fitte da non notare le condizioni spiacevoli ordinarie, né l'effetto stancante delle interminabili notti. Ma non so davvero a cosa attribuire la causa di tutto questo: forse perché ero e mi consideravo un uomo molto forte e sano, o forse perché fino a quel momento non ero mai stato neppure una volta seriamente malato, e i pensieri tristi che sono talvolta prodotti dalle malattie serie erano alieni alla mia mente - tuttavia, per quanto mi sentissi male, o per quanto all'improvviso arrivassero le fitte della mia malattia, neppure una volta mi entrò in mente l'idea della morte.

Attesi con confidenza che oggi o domani avvenisse un cambiamento per il meglio, e chiedevo con impazienza la mia temperatura ogni volta che il termometro era rimosso da sotto al mio braccio. Ma dopo aver raggiunto un certo livello, si bloccò letteralmente a quel punto, e alle mie domante sentivo costantemente la risposta: "40 e 9," "41," "40 e 8."

"Ahimè, che lungo processo!" dissi un giorno con disappunto, e in seguito chiesi al dottore se si aspettava che la mia convalescenza continuasse allo stesso passo da tartaruga.

Vedendo la mia impazienza, il dottore mi calmò dicendo che con la mia età e la mia salute non c'era nulla da temere, che la convalescenza non sarebbe durata a lungo, che con circostanze così favorevoli si può ricuperare la salute in un arco di pochi giorni.

Gli credetti di tutto cuore, e rafforzai la mia pazienza con il pensiero che rimaneva ancora poco alla crisi conclusiva, e che tutto in seguito sarebbe tornato completamente normale.

VI

Una notte mi sentii particolarmente male; mi rigiravo per la febbre e respirare mi era estremamente difficile, ma verso il mattino tutto migliorò così rapidamente, che fui perfino in grado di addormentarmi. Al risveglio, il mio primo pensiero al ricordo della sofferenza notturna fu: "Bene, questa deve essere stata la crisi finale, e ora è passata. E ormai ci sarà una fine a questo boccheggiare e a questa febbre insopportabile."

Avendo visto un giovane infermiere che entrava in un reparto vicino, lo chiamai e gli chiesi di prendermi la temperatura.

"Bene, signore, ora le cose hanno preso una svolta al meglio," disse con gioia, rimuovendo il termometro al momento stabilito. "La sua temperatura è normale."

"Davvero?" chiesi con gioia.

"Guardi lei stesso: 37 e 1. E sembra che la sua tosse non l'abbia disturbata tanto."

Realizzai solo in quel momento che di fatto non avevo tossito dalla mezzanotte fino al mattino, e anche se mi ero mosso e avevo preso alcuni sorsi di tè caldo, non avevo tossito neppure allora come risultato.

Il dottore arrivò alle nove. Gli dissi che mi ero sentito male, trassi la conclusione che evidentemente questa doveva essere stata la crisi conclusiva, e dissi che ora non mi sentivo male e che prima del mattino ero anche stato in grado di dormire qualche ora.

"Bene, questo è certamente un buon segno," disse, e andò al tavolo a consultare qualche sorta di tabella o nota che si trovava là sopra.

"Vuole prendergli la temperatura?" gli chiese l'infermiere. "La sua temperatura è normale."

"Cosa intende per normale?" gli chiese il dottore, sollevando in fretta la testa dal tavolo e guardando l'infermiere con perplessità.

"Esattamente quello che ho detto, l'ho appena provata."

Il dottore mi fece di nuovo prendere la temperatura, e questa volta sorvegliò egli stesso che fosse rilevata nel modo appropriato. Ma questa volta la temperatura non raggiunse neppure i 37 gradi: venne fuori che era più bassa di due linee.

Il dottore prese il proprio termometro dalla tasca laterale del suo camice, lo scrollò, lo controllò, ed evidentemente certo della sua correttezza mi prese di nuovo la temperatura.

Questo secondo risultato fu uguale al primo.

Con mia sorpresa, il dottore non mostrò alcun segno di felicità riguardo alla mia condizione, e non fece, per amor di buona educazione, la minima espressione di soddisfazione nel proprio aspetto, e dopo essersi girato in un modo un po' nervoso, lasciò il reparto: circa un minuto dopo udii un telefono che iniziava a suonare nella camera.

VII

Ben presto arrivò il primario: entrambi mi auscultarono e mi esaminarono - e mi fecero praticamente ricoprire la schiena di sanguisughe; in seguito, dopo aver prescritto una medicina, non me la diedero insieme alle altre, ma inviarono un infermiere a farla preparare prima delle solite altre medicine.

"Mi ascolti, che cosa pensa di farmi ora che non mi sento affatto male, per bruciarmi con le sanguisughe?" chiesi al primario.

Mi sembrò che la mia domanda confondesse o scoraggiasse il dottore, ed egli rispose con impazienza:

"Oh, Dio mio! Lei non può essere abbandonato così al libero corso della malattia solo perché si sente meglio. Dobbiamo estrarle tutto il pasticcio che si è accumulato in lei in questo tempo."

Tre ore dopo il dottore più giovane mi venne di nuovo a vedere; esaminò come erano piazzate le sanguisughe, mi chiese quanti cucchiai di medicina avessi preso. Dissi, "Tre."

"Ha tossito?"

"No," risposi.

"Neppure una volta?"

"Neppure una volta."

"Per favore, mi dica," mi volsi all'infermiere che era continuamente presente nel mio reparto, "che sorta di schifezza hanno miscelato in questa medicina. Mi fa vomitare."

"Ci sono vari tipi di espettoranti," spiegò.

In questo caso agii esattamente come spesso fanno i negatori contemporanei della religione, vale a dire, senza capire nulla di quanto stava accadendo, davo un giudizio mentale e rimproveravo la procedura del dottore nella mia mancanza di comprensione: mi danno espettoranti quando non ho nulla da espettorare.

VIII

Nel frattempo, un'ora e mezza o due dopo l'ultima visita dei dottori, tutti e tre apparvero di nuovo nel mio reparto: due dei nostri e un terzo, che aveva un'aria di importanza e di imponenza, che non era del nostro reparto.

Mi auscultarono a lungo; quindi apparve una tanica d'ossigeno. Questa mi fece in qualche modo stupire.

"E questa a che serve?" chiesi.

"Ebbene, dobbiamo filtrare un poco i suoi polmoni. Si sono quasi distrutti," disse il terzo dottore, quello di un altro reparto.

"Ma mi dica, dottore, che cos'è che vi affascina della mia schiena, da esserne tanto preoccupati. Ora è la terza volta che me la percuotete e la me coprite tutta di sanguisughe."

Mi sentivo tanto meglio rispetto a quei giorni precedenti, e perciò nei miei pensieri ero ben lungi dall'avere una natura pessimistica, così che nessuno strumento medico era in grado di portarmi a desumere le mie vere condizioni; persino l'apparizione di un dottore importante e dall'aspetto strano, me la spiegavo come un cambio di personale o qualcosa di simile, senza sospettare in alcun modo che egli fosse stato chiamato apposta per me, perché il mio caso richiedeva un consiglio. Feci l'ultima domanda in un tono così libero e felice, che evidentemente nessuno dei miei medici ebbe appena il coraggio di accennare alla prossima catastrofe. E in verità, come si può dire a un uomo pieno delle più liete speranze che forse gli restano ancora solo poche ore da vivere!

"È proprio ora che dobbiamo percuoterla," mi ripose il dottore in modo indeterminato.

Ma anche questa risposta la interpretai nel modo che desideravo, ovvero che ora, che la crisi era passata, e la forza dell'infermità si stava indebolendo, evidentemente era necessario e più conveniente applicare tutti i mezzi possibili per scacciare il resto del male e aiutare a rimettere in sento tutto quanto era stato colpito dalla malattia.

IX

Ricordo che circa alle quattro provai una sorta di debole senso di freddo, e desiderando scaldarmi, mi coprii comodamente con la coperta e mi sdraiai nel letto, ma improvvidamente mi sentii molto stordito.

Chiamai l'infermiere, che venne a sollevarmi dal cuscino e alzò la borsa dell'ossigeno. Udii da qualche parte il suono di un campanello, e in pochi minuti il primario entrò affrettato nel mio reparto, e poco dopo, uno dopo l'altro, entrambi i nostri medici.

In un'altra occasione un tale insolito raduno di massa del personale medico e la rapidità con cui si riuniva mi avrebbero stupefatto e confuso, ma ora mi era interamente indifferente, come se non avesse nulla a che fare con me.

Uno strano cambiamento ebbe luogo all'improvviso nel mio umore! Un minuto prima ero pieno di ottimismo, ora anche se vedevo e capivo appieno tutto ciò che mi stava accadendo attorno, spuntò d'un tratto una sorta di incomprensibile indifferenza, una lontananza che, come pare ora, è completamente aliena ai viventi.

Tutta la mia attenzione era concentrata su me stesso, ma anche qui c'era una qualità particolare e sconvolgente, un certo stato di divisione in me: sentivo ed ero conscio di me stesso con completa chiarezza e certezza, e allo stesso tempo avevo un senso di tale indifferenza verso me stesso, che sembrava come se avessi perso anche la capacità di percepire le sensazioni fisiche.

Per esempio, vidi come il dottore stendeva la mano e sentiva la mia pulsazione - vedevo e capivo ciò che faceva, ma non sentivo il suo contatto con il mio corpo. Vedevo e capivo che i dottori, dopo avermi sollevato, continuavano a fare qualcosa e continuavano a fare qualcosa preoccupandosi della mia schiena, dove evidentemente aveva avuto inizio l'edema, ma cosa facessero, non lo percepivo, e questo non perché avessi di fatto perduto la capacità di percepire queste sensazioni, ma perché questo non attirava affatto la mia attenzione, e perché, essendomi in qualche modo ritirato in profondità entro me stesso, non ascoltavo né osservavo quanto mi stavano facendo.

Sembrò come se all'improvviso due esseri o essenze si fossero manifestati in me: uno - nascosto da qualche parte nel profondo dell'intimo, e questa era la mia parte principale; l'altro - esterno ed evidentemente meno significativo; e ora sembrava come se il legame tra i due si fosse bruciato o dissolto, e queste due essenze separate, con la più forte che si faceva sentire più vividamente e con maggior certezza, mentre la più debole diventava una questione di indifferenza. Questa parte o essere più debole era il mio corpo.

Posso immaginare come, forse anche pochi giorni prima, sarei stato colpito dalla manifestazione in me di questo essere interno finora a me ignoto, e dalla realizzazione della sua superiorità su quell'altra parte di me, che secondo le mie convinzioni precedenti costituiva la totalità dell'essere, ma che ora non notavo neppure.

Questo stato era per me del tutto sorprendente: vivere, vedere, udire e comprendere tutto, e allo stesso tempo apparentemente non vedere né comprendere nulla, e sentire una tale alienazione da tutto.

X

Così, per esempio, il dottore mi fa una domanda; io ascolto e capisco ciò che dice, ma non replico, non do una risposta, perché sento che non ho ragione di parlargli. E tuttavia egli si preoccupa di me, ma di quella metà di me, che ora ha perso per me ogni significato, e con cui sento di non avere nulla a che fare.

Ma improvvisamente l'altra metà si fece sentire, e in modo così forte e insolito!

Mi sentii all'improvviso attratto verso il basso da una forza irresistibile. Durante i primi minuti questa sensazione era simile all'avere dei pesi massicci legati a tutte le membra del corpo; ma poco più oltre questo paragone non poteva descrivere in modo appropriato le mie sensazioni. Tale rappresentazione di una simile attrazione sembrava ora relativamente insignificante.

No, qui era all'opera qualche tipo di legge di attrazione gravitazionale di enorme potenza.

Mi sembrava che non solo il mio insieme, ma ogni arto, ogni capello, il tendine più fine, ogni cellula del mio corpo fossero attratti separatamente da qualche parte in modo altrettanto irresistibile, di come un forte magnete attrae a sé dei pezzi di metallo.

Eppure, a prescindere da quanto fosse forte tale sensazione, non mi ostacolava dal pensare e dall'essere cosciente di ogni cosa; ero pure conscio della stranezza di questo fenomeno. Ricordavo ed ero conscio della realtà, vale a dire che giacevo a letto, che il mio reparto era al secondo piano, [e] che sotto di me c'era una stanza identica; ma allo stesso tempo, secondo la forza della sensazione, ero certo che se sotto di me ci fossero state non una, ma dieci stanze accatastate l'una sull'altra, queste di sarebbero aperte all'improvviso per lasciarmi passare... verso dove?

Da qualche parte in profondità, giù nella terra.

Sì, proprio nella terra, e volevo giacere sul suolo; mi scossi e iniziai a muovermi.

XI

"Agonia," udii questa parola pronunciata su di me dal dottore.

Poiché non parlavo, essendo completamente concentrato in me stesso, e il mio sguardo esprimeva una completa assenza di interesse per il mondo circostante, i dottori evidentemente decisero che io ero in uno stato inconscio e parlavano di me in modo udibile e senza ritenzioni. Nel frattempo, non solo capivo tutto in modo eccellente, ma mi era impossibile non pesare e osservare a fondo.

"Agonia, morte!" Pensai, avendo sentito le parole del dottore. "Sto davvero morendo?" Volgendomi a me stesso, dissi a voce alta; ma come? Perché? Non so spiegarlo.

Mi ricordai all'improvviso un dotto discorso a proposito della questione se la morte sia o no dolorosa, che avevo letto tanto tempo prima, e, dopo avere chiuso gli occhi, mi esaminai riguardo a ciò che stava avendo luogo in me a quel tempo.

No, non provavo alcun dolore fisico, ma senza dubbio stavo soffrendo. Mi sentivo pesante e stanco all'interno. Da cosa veniva questa sensazione? Sapevo di che malattia stavo morendo; che accadeva ora, era l'edema che mi soffocava, o stava rallentando l'attività del cuore e questo mi affaticava? Non lo so. Forse questa era la spiegazione della mia morte ormai prossima secondo le idee di quelle persone, e del mondo, che ormai sentivo così alieno e remoto. Io, tuttavia, provavo solo un'insormontabile moto, un'attrazione verso qualcosa, come ho già detto.

Sentivo questa attrazione crescere a ogni istante, come se fossi appena arrivato molto vicino a quel magnete che mi attirava, e che se avessi toccato, si sarebbe interamente fuso con il mio corpo, diventando uno con esso in tal modo che nessuna forza avrebbe poi potuto separarli, e quanto più sentivo arrivare questo momento, tanto più impaurito e depresso diventavo, e simultaneamente provavo con crescente chiarezza una resistenza, sentivo che non potevo unirmi del tutto, che qualcosa in me doveva separarsi e che questo qualcosa stava cercando di allontanarsi dall'oggetto sconosciuto dell'attrazione con la stessa intensità con cui l'altra parte di me vi si avvicinava. Era questo sforzo che mi causava stanchezza e sofferenza.

XII

Il significato della parola "agonia," che avevo udito, mi era del tutto chiaro, ma ora tutto in me si allontanava in qualche modo da ricordi, sensazioni e concetti.

Senza dubbio, se avessi udito questa parola anche nel momento in cui i tre dottori mi stavano esaminando, mi sarei spaventato in modo allarmante. Allo stesso modo, se un simile strano cambiamento non avesse avuto luogo nella mia malattia, se fossi rimasto nello stato ordinario di un malato, anche ora, sapendo della morte imminente, avrei compreso e spiegato tutto ciò che aveva luogo in me in modo differente; ma nello stato presente le parole del dottore non fecero che stupirmi, senza provocare la paura caratteristica di chi pensa alla morte, e diedi un'interpretazione completamente inaspettata, a paragone delle mie concezioni precedenti, dello stato che stavo ora sperimentando.

"Ebbene, ecco che cos'è! È la terra che mi sta attirando in questo modo," improvvisamente mi venne da pensare. "Vale a dire, non me, ma ciò che appartiene a essa, ciò che mi ha imprestato per un certo tempo. Ed è la terra stessa che la attira, oppure è la materia che torna alla terra?"

E ciò che prima mi sembrava così naturale e vero, e cioè che dopo la morte mi sarei trasformato interamente in polvere, ora appariva innaturale e impossibile.

"No, non sparirò del tutto, non posso," urlai quasi ad alta voce, e feci un tentativo di liberarmi, di strapparmi a quella forza che mi attraeva, e all'improvviso mi sentii calmo.

Aprii gli occhi, e tutto ciò che vidi nel corso di quel minuto, fino ai minimi dettagli, si registrò nella mia memoria con chiarezza completa.

Mi vidi in piedi in una stanza; alla mia destra, disposto a semicerchio, l'intero gruppo dei medici era riunito assieme: con le mani dietro alla schiena e lo sguardo fisso a qualcosa che non riuscivo a vedere dietro alle figure dei dottori, stava il primario; dietro di lui, leggermente chinato in avanti, c'era il medico più giovane; il vecchio infermiere, con una sacca di ossigeno nelle mani, si spostava indeciso da una gamba all'altra, evidentemente senza sapere cosa fare con quell'apparato, se metterlo via o no, poiché poteva ancora essere utile; e il dottore giovane, chino in avanti, stava reggendo qualcosa, ma a causa delle sue spalle, vedevo solo i cuscini.

Questo gruppo mi fece stupire: stavano attorno a un letto. Che cosa c'era che attirava la loro attenzione, cosa stavano guardando, quando io ero lì in piedi, in mezzo alla stanza?

Mi avvicinai e guardai nella direzione in cui guardavano tutti:

Là, sul letto, c'ero io.

XIII

Non mi ricordo di aver sperimentato qualcosa di simile alla paura alla vista del mio doppio; ero solo perplesso: come può essere? Mi sentivo allo stesso tempo in due posti.

Guardai me stesso in piedi nel mezzo della stanza. Senza dubbio, ero io, esattamente come avevo sempre saputo di essere.

Provai a prendere la mano sinistra con la destra, e una mano passò attraverso l'altra; cercai di afferrarmi alla cintola - e di nuovo le mie mani passarono attraverso il mio corpo come attraverso uno spazio aperto.

Colpito da un così strano fenomeno, volevo che qualcuno lì vicino mi aiutasse a capire che cosa accadeva, e dopo aver fatto qualche passo, estesi la mano, desiderando toccare la spalla del dottore; ma sentii che camminavo stranamente, senza sentire un contatto con il pavimento; e la mia mano, per quanto provassi, non riusciva a raggiungere il dottore; mancavano forse pochi centimetri, ma non ero in grado di toccarlo.

Mi sforzai di stare fermo sul pavimento, ma, anche se il mio corpo obbediva ai miei tentativi e si abbassava, non riusciva lo stesso a toccare il pavimento, così come prima non riusciva a toccare la figura del dottore. Anche qui restava uno spazio insignificante, ma non riuscivo in alcun modo a superarlo.

Mi ricordo vivamente come diversi giorni prima l'infermiera del nostro reparto, che desiderava proteggere la mia medicina, mise la fiala dentro un vaso d'acqua fredda. Tuttavia il vaso era profondo, e la fiala leggera ritornò a galla; ma la vecchia infermiera, senza capire ciò che accadeva, tentò con insistenza una, due, tre volte di abbassarla sul fondo del vaso, sperando che alla fine rimanesse lì; ma appena rimuoveva il dito, la fiala tornava di nuovo alla superficie.

Evidentemente, in modo simile, l'aria circostante doveva essere divenuta troppo densa per me.

XIV

Che cosa mi era accaduto?

Chiamai il dottore, ma l'atmosfera in cui mi trovavo risultò completamente inadatta; non riceveva né trasmetteva i suoni della mia voce, e io comprendevo di essere in uno stato di totale dissociazione da tutto ciò che mi stava attorno. Capivo questo mio strano stato di solitudine, e un senso di panico mi ricoprì. C'era davvero qualcosa di indicibilmente orribile in questa straordinaria solitudine. Se uno si perde in una foresta, annega nelle profondità del mare, è presa dal fuoco, o siede in un confino solitario, non perde mai la speranza che qualcuno lo possa ascoltare. Sa che verrà capito se il suo richiamo di aiuto giunge alle orecchie di qualcuno; comprende che un altro essere vivente lo vede, che il soccorritore camminerà verso di lui, che potrà iniziare a parlargli, esprimere il suo desiderio ed essere compreso dall'altro.

Ma vedersi persone intorno, udire e comprendere la loro conversazione, e allo stesso tempo sapere che per quanto ti succeda, non hai assolutamente alcuna opportunità di informarli della tua presenza e di aspettarti aiuto se hai bisogno - per un simile stato di solitudine mi si rizzarono i capelli, e mi si intorpidì la mente. Era peggio che stare su un'isola disabitata, perché là almeno la natura avrebbe manifestato segni positivi di recettività della mia individualità; ma qui, in questa privazione della capacità di interagire con il mondo circostante, in questa esperienza innaturale per un essere umano, c'era così tanta paura mortale, un tale orribile riconoscimento di impotenza, da non poter sperimentare in alcun'altra situazione, né da poter trasmettere a parole.

Naturalmente, non mi arresi subito; cercai in tutti i modi possibili di rendere nota la mia presenza, ma questi tentativi non facevano che portarmi alla completa disperazione. È davvero possibile che non mi vedano? - Pensavo disperato, e mi avvicinavo ripetutamente al gruppo di persone che stava attorno al mio letto, ma nessuno di loro si voltava o mi dava attenzione, e ora guardavo me stesso con perplessità, e non capivo come fosse loro possibile non vedermi, quando ero lo stesso di sempre. Cercai di toccarmi, e la mia mano di nuovo attraversò l'aria.

"Ma io non sono un fantasma. Provo sensazioni e sono cosciente di me stesso, e il mio corpo è un corpo reale, e non qualche tipo di 'miraggio' deludente," pensai, e di nuovo mi guardai con attenzione, e mi convinsi che il mio corpo era davvero un corpo, poiché potevo osservarne i dettagli più minuti, anche una macchia, con completa chiarezza. La sua apparenza esterna rimaneva la stessa di ciò che era stato in precedenza, ma evidentemente le sue qualità erano cambiate. Era divenuto inaccessibile al tatto, e l'aria circostante era divenuta troppo densa, tanto che non era possibile un contatto completo con gli oggetti.

"Un corpo astrale. Mi sembra che lo chiamino così?" il pensiero mi passò in un lampo per la mente. "Ma perché, che cosa mi è accaduto?" mi chiesi, cercando di ricordare se avessi mai udito descrizioni di simili stati, di strane trasfigurazioni durante una malattia.

Segue

“Quando si vuol cercare la verità su una questione
bisogna cominciare col il dubbio.
(S. Tommaso d’Aquino)”

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